Ogni volta che entriamo in relazione per la 1ª volta con una persona ci sentiamo ripetere le classiche domande di rito che portano alla conoscenza, più o meno approfondita, ma che attraverso le risposte, ci portano a qualificare chi abbiamo davanti. Se “come ti chiami?” è la 1ª classica domanda, la successiva è subito “Che lavoro fai?”, che ci aiuta a capire meglio e a dare la giusta ambientazione al dialogo successivo. Prima ancora di parlare di Diversity & inclusion aziendale, spesso, quando nella relazione c’è una persona con disabilità questo passaggio viene omesso, come mai?
Quando però vediamo una persona “diversa” dal nostro immaginario, magari in carrozzina o col bastone o qualsiasi altro dettaglio che ci porta ad etichettare e confinare nel mondo della disabilità, si attiva la falsa credenza più conclamata: credere che una persona con disabilità non lavori o non possa ambire a lavorare, o a conquistare una professionalità.
Passiamo ¾ della nostra giornata a lavorare e al di là di qualsiasi aspetto economico, il lavoro ci qualifica, gratifica e ci fa prendere una posizione a questo mondo, lavoriamo per scelta, necessità, ma anche per passione e possiamo certo decidere se farlo o meno, ma non è un disegno prestabilito a priori.
Non stiamo parlando di tips di buona comunicazione, ma di buona educazione, fonte primaria di ogni interazione. Troppe volte la paura ci rende incastrati in atteggiamenti discriminatori anche se non vorremmo, ci fanno omettere leggerezza e normalità in favore di preconcetti di rimando da una società che ci incasella tutti in modo prestabilito. Sì abbiamo sempre paura di sbagliare modus operandi, parole e occasioni davanti ad una persona con disabilità e non ci accorgiamo che più stiamo a pensare a come fare, più la comunicazione e il suo significato scema. Molti di noi convivono con un concetto di discriminazione interiorizzata che ci porta ad avere disagio anche in una comunicazione così banale come nel caso della domanda “che lavoro fai?”, perché riteniamo che la risposta possa smuovere note dolenti magari in chi non lavora o non può lavorare. Non c’è un atteggiamento giusto a priori, non ci sono regole che valgono, se non quelle della buona educazione e di darsi un’opportunità di dialogo. Pensare che una persona con disabilità non lavori non è grave, dimostrarlo con i fatti assumendo un atteggiamento diverso che con altre persone, lo è. La paura non deve metterci in guardia dai comportamenti banali, non deve farci passare la voglia di interagire con le persone, tutte, e non deve irrigidire i nostri atteggiamenti più classici. Si prova usando la testa, si sbaglia, si recupera, ma si parla.
Rispettare il concetto di inclusione passa anche da qui: abbattere questi pregiudizi e assumere un atteggiamento egualitario anche nelle banalità, perché significa avere coscienza dei diritti di tutte le persone.